Il riutilizzo di beni durevoli lascia fuori il 98% dei rifiuti urbani

È stato presentato ieri a roma il Rapporto nazionale sul riutilizzo 2018, che si occupa di indagare quanti e quali siano quei materiali – presenti nel flusso italiano dei rifiuti urbani – che potrebbero trovare nuova vita senza passare dagli impianti industriali di riciclo, se esistesse il modo di reimmetterli in circolazione. Un’ipotesi, questa, molto gradita dalla cittadinanza oltre che conforme alla gerarchia europea dei rifiuti: secondo gli ultimi dati emersi dall’Ecoforum di Legambiente e Kyoto club, infatti, solo per il 37% degli italiani «il rifiuto differenziato va trattato attraverso processi industriali per riciclarlo e produrre nuovi manufatti», mentre un altro 25% preferirebbe «modificarlo e riutilizzarlo senza intraprendere nuovi processi industriali».

Il Rapporto nazionale sul riutilizzo 2018, realizzato da Occhio del riciclone in collaborazione con Utilitalia (la Federazione delle imprese italiane dei servizi idrici, energetici e ambientali) concentra dunque la propria attenzione sui beni durevoli riutilizzabili (considerando solo quelli in buono stato e facilmente collocabili sul mercato) presenti nel flusso dei rifiuti urbani: «Si tratta di mobili, elettrodomestici, libri, giocattoli e oggettistica che, in mancanza di un quadro normativo capace di favorire la strutturazione di vere e proprie filiere, quasi mai vengono riutilizzati».

Di quali potenzialità parliamo, dunque? Secondo il rapporto i beni durevoli riutilizzabili ammontano a «600.000 tonnellate annue, circa il 2% della produzione nazionale di rifiuti». All’inverso, soffermandoci alla partita dei beni durevoli, il 98% della produzione nazionale di rifiuti urbani non può essere riusato. E anche quelle 600mila tonnellate non vengono quasi mai riutilizzate, come purtroppo documenta il rapporto: «Il danno ammonta a circa 60 milioni di euro l’anno relativo ai costi di smaltimento – si precisa – senza considerare il valore degli oggetti di seconda mano».

«Le aziende di igiene urbana – sottolinea Filippo Brandolini, vicepresidente Utilitalia – svolgono un ruolo cruciale nella transizione verso un’economia circolare. Sempre più spesso, infatti, non si limitano a gestire i rifiuti conferiti dai cittadini ma diventano promotrici di iniziative innovative che, come nel caso del riutilizzo, alimentano filiere al alto valore (umano, ambientale, economico e sociale) aggiunto. Per questo Utilitalia, da sempre in prima fila nella promozione di politiche di prevenzione dei rifiuti, dialoga apertamente con le amministrazioni e il mondo dell’usato per cercare insieme modelli, sinergie e forme e di collaborazione che sappiano promuovere un utilizzo efficiente e sostenibile delle risorse ambientali e umane».

Anche in questo frangente è però necessario avere in mente le proporzioni del caso: a fronte dei 60 milioni di euro citati, il costo totale per la gestione dei rifiuti urbani – stimato attraverso l’ammontare della Tari riscossa in un anno in tutta Italia – ammonta a circa 10 miliardi di euro. Al contempo, le 600mila tonnellate di beni durevoli potenzialmente riusabili vanno confrontate con il totale dei rifiuti urbani prodotti in un anno (30,1 milioni di tonnellate nel 2016) e magari con il totale dei rifiuti speciali (132,4 milioni di tonnellate nel 2015). Anche allargando il campo d’analisi ad altre frazioni merceologiche il calcolo finale non si sposta di molto. «Al momento, nel nostro Paese – si nota infatti all’interno del rapporto – le filiere degli indumenti usati sono senza alcun dubbio le più articolate e strutturate: nel 2016 sono state infatti raccolte 133.300 tonnellate di rifiuti tessili, il 65% delle quali è stato riutilizzato (il rimanente 35% è stato avviato a riciclo, recupero o smaltimento)».

Numeri che, presi complessivamente, aiutano a impostare una strategia utile al Paese: è necessario incrementare il più possibile il riutilizzo, che la gerarchia europea dei rifiuti pone al di sopra del riciclo e secondo soltanto alla prevenzione, ma è anche necessario sapere fin dove si possono attualmente spingere i limiti del riuso. Per il resto rimane indispensabile far leva sul riciclo – che a sua volta produce rifiuti, come del resto ogni processo industriale, stimati dall’Ispra in un ammontare pari al 27,1% di tutti rifiuti speciali prodotti nel Paese –, sul recupero energetico e, in via residuale, sulla discarica.

 

Notizia tratta dal sito www.greenreport.it

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