LE TAPPE DEL GRANDE POLO CHIMICO NATO PER FERMARE IL BANDITISMO
Lanciato all’inizio degli anni Settanta come polo industriale rivoluzionario con l’obiettivo per sconfiggere la piaga del banditismo, ha finito per trasformarsi in una catena di fallimenti aziendali, chiusure e licenziamenti, oltre che lo spreco di fiumi di denaro pubblico e un inquinamento ambientale senza freni. E proprio in questi giorni la Regione Sardegna ha deciso di istituire una commissione d’inchiesta che faccia luce su questo clamoroso ‘pasticcio’. Ma a leggere i giornali di 40 anni fa, diciamo che la ‘piega’ presa dalla ‘questione Ottana’ era già chiara.
“Un errore geografico e sociale”
“Ottana è già di per sé un errore geografico e sociale. Il grande centro industriale è stato costruito per tagliare le gambe al banditismo, ma la crisi scoppiata si ripercuote in termini di umanità sulla popolazione. Quelle migliaia di operai licenziati o posti in cassa integrazione sono per la maggior parte ex piccoli contadini o ex pastori che attirati da un salario sicuro, hanno abbandonato le loro povere terre o venduto le greggi. Ieri furono sradicati da un ambiente ancestrale e a da antiche tradizioni, oggi sono misera gente condannata a un domani senza speranza. La responsabilità va cercata in quei pubblici poteri che hanno violentato la vera natura della Sardegna e del nuorese in particolare”. Con queste parole si apriva nel 28 novembre 1977 l’edizione dell’Ortobene, il giornale della diocesi di Nuoro, nell’anno della prima grande crisi occupazionale nel polo industriale del centro Sardegna.
La fine del sogno industriale
Parole profetiche, e più che mai attuali nel 2018, anno che ha certificato la fine definitiva del sogno industriale nel nuorese e che ha riportato la “questione Ottana” al centro del dibattito politico in Sardegna: nel 1973 l’insediamento delle prime industrie chimiche, 45 anni dopo il cerchio si chiude con la richiesta al ministero dello Sviluppo economico da parte della Regione del riconoscimento della situazione di crisi industriale complessa (20 aprile) e sempre nel 2018, a maggio, l’istituzione in seno al Consiglio regionale di una commissione d’inchiesta sul fallimento delle politiche che hanno portato a questo risultato. In mezzo, un fiume di denaro pubblico che si è riversato per decenni nella Piana di Ottana per “salvare” le industrie che man mano chiudevano i battenti, ma che ha portato come unico risultato la devastazione antropologica e culturale, prima ancora che economica e sociale, di un intero territorio.
Un progetto che non solo non ha risolto il problema dell’occupazione– negli anni si sono susseguiti migliaia di licenziamenti- ma che ha inquinato e avvelenato l’ambiente circostante, a partire dal fiume Tirso che attraversa la Piana.
L’industrializzazione, voluta anche per indebolire le strutture socioeconomiche agro-pastorali che si pensava alimentassero il fenomeno del banditismo, è fallita definitivamente, provocando ulteriore disgregazione sociale.
Le tappe della crisi
Anni sessanta. Il boom economico nel Nord Italia, fa da contraltare alla situazione sempre più grave nel Mezzogiorno, afflitto da gravissimi fenomeni di disoccupazione e spopolamento. Non fa eccezione la Sardegna, dove, oltre a una migrazione sempre più massiccia, si registra una recrudescenza del banditismo, in particolare con attività legate alle rapine e al sequestro di persone, soprattutto nelle aree interne. Nel frattempo nelle campagne monta la protesta, spinta anche dal clima politico che si respira in quegli anni. In questo quadro si inserisce la commissione parlamentare di inchiesta sul banditismo in Sardegna, presieduta dal senatore Giuseppe Medici, che trova nelle condizioni economiche una delle cause principali dell’aumento dei fenomeni criminali. Vengono, quindi, individuati, da parte del comitato dei ministri per il Mezzogiorno e del ministero delle Partecipazioni statali, una serie di insediamenti industriali da realizzare prima nell’agglomerato di Ottana e, successivamente, anche in quelli del Sologo e del Sarcidano da parte delle aziende del gruppo Eni e dei Fratelli Orsenigo (per Ottana) e del gruppo Sir (per tutti gli agglomerati).
La Cassa per il Mezzogiorno assume l’impegno di finanziare la realizzazione delle infrastrutture di base, buona parte delle quali vengono eseguite da Eni in qualità di ente concessionario. Ebbe così inizio, nei primi anni ’70, la prima fase di industrializzazione, compiuta attraverso un processo di pianificazione generale condotto nell’ambito del Piano di rinascita dell’isola. L’Enichem e la Metallurgica del Tirso furono le prime grandi industrie di interesse nazionale che si insediarono ad Ottana intorno al 1973.
In quegli anni l’Eni eseguì un piano industriale che faceva sorgere ad Ottana i migliori impianti per la produzione di fibre tessili, acriliche e polimeri. Il sito si dotò di una centrale termoelettrica (Ottana Energia) e di una manifattura chimica, sia per lavorazione delle materie prime (pta) sia per la produzione di pet (la plastica riciclabile utilizzata ad esempio per le bottiglie).
Furono anni in cui la Piana di Ottana visse un vero e proprio boom occupazionale che attirò anche lavoratori provenienti da altre zone della Sardegna. L’industria portò su tutto il territorio della Sardegna centrale, cambiamenti profondi di sviluppo economico e culturale, ma l’illusione durò poco, complice anche la crisi internazionale della chimica primaria. Nel 1978 la Metallurgica del Tirso cessò l’attività licenziando 450 lavoratori. L’Enichem resse alla crisi fino ai primi anni ottanta, fino alla completa chiusura del suo apparato produttivo nel 1997, con una perdita di 1.300 posti di lavoro.
Da quel momento, quindi, la lunga sequenza di cessioni e chiusure delle principali attività produttive, dalla Montefibre nel 2003 alla Lorica Sud nel 2012. Per arrivare negli ultimi due anni alle lettere di licenziamento per 58 operai di Ottana Polimeri e per 40 lavoratori di Ottana Energia.
Incubo nucleare, lo spettro delle scorie radioattive in arrivo
Ad aggravare la situazione, già di per sé drammatica, l’ipotesi che il territorio, per le sue caratteristiche, possa essere individuato come sito ideale per accogliere il deposito nazionale di scorie radioattive. Un’ipotesi, che suonerebbe come beffa definitiva per Ottana, denunciata nei mesi scorsi da vari esponenti della politica sarda, a partire dall’ex deputato Mauro Pili: “Siamo davanti a un piano di desertificazione studiato a tavolino per lasciare il campo al progetto di deposito delle scorie- spiegava Pili nel 2017-. I dettagli del piano del governo sono sempre più evidenti: chiusura della centrale, chiusura della chimica, acquisto di aree immense da parte di Invitalia, opere di infrastrutturazione, a partire da 2 milioni di euro di illuminazione a led, per una zona industriale ormai ridotta a deserto produttivo. È molto più facile scatenare le più devastanti pressioni sociali se si crea solo povertà e carestia, che far passare un piano devastante come quello delle scorie nucleari”.
La risposta della politica
A riaccendere i riflettori della politica sulla crisi industriale nel centro Sardegna, non poteva essere che il sindaco di Ottana, Franco Saba che lo scorso 31 marzo ha minacciato le dimissioni della giunta in assenza di risposte per il territorio. “Stiamo valutando la possibilità di lasciare gli incarichi- le parole del primo cittadino-. Le zone interne stanno morendo e tutto questo sta avvenendo nel totale silenzio. In pochi anni qui sono stati cancellati centinaia di posti di lavoro dalla Legler, a Ottana Polimeri a Ottana Energia, per non parlare delle altre imprese che hanno chiuso prima”.
Venti giorni dopo, il 20 aprile, la direzione nazionale del Partito dei sardi, convocata dal segretario Paolo Maninchedda proprio ad Ottana, dove centinaia di persone hanno risposto all’invito dell’ex assessore regionale (direzione che verrà replicata il 25 maggio) e in seguito un vertice privato sulla crisi tra lo stesso Maninchedda e il presidente della Regione Francesco Pigliaru. Fino ad arrivare alla richiesta ufficiale al Mise da parte dell’assessorato dell’Industria, per il riconoscimento dell’area di crisi complessa: “Le crisi industriali complesse- si legge nel dossier su Ottana fatto pervenire a Roma- riguardano specifici territori soggetti a recessione economica e perdita occupazionale di rilevanza nazionale che può derivare da crisi di una o più imprese di grande o media dimensione. Si tratta di situazioni non risolvibili con risorse e strumenti di competenza regionale e che hanno un impatto significativo sulla politica industriale nazionale”. Tradotto: la vertenza del polo industriale di Ottana deve essere nazionale, da sola la Sardegna non può farcela. In particolar modo per quanto riguarda le bonifiche e il rilancio economico di un’area enorme, ancorché scarsamente abitata, per quasi 50 anni sotto il giogo di un’industrializzazione fasulla. Un’ ulteriore spinta in questa direzione è giunta anche dal Consiglio regionale.
L’otto maggio di quest’anno l’aula ha approvato all’unanimità un ordine del giorno che dà il via libera all’istituzione di una commissione d’inchiesta “sui fallimenti delle politiche industriali nell’area di Ottana”, proposta dal consigliere nuorese dei Riformatori, Luigi Crisponi: “Il tema del polo di Ottana di fatto non è stato mai affrontato compiutamente- le parole di Crisponi in aula-. Dopo cinquant’anni, è arrivato il momento di fare luce su un compendio industriale che ha visto chiudere decine e decine di aziende, licenziare i lavoratori, rilasciare una rilevantissima quantità di sostanze tossiche nei terreni, nelle falde, nell’ambiente in generale, generando desolazione, desertificazione sociale, ma anche malattie”.
Dopo cinquant’anni “è legittimo e doveroso aprire una profonda riflessione ed un’attenta disamina dei fatti, ma anche dei documenti che hanno accompagnato la nascita, la crescita e il fallimento di quelle azioni. Che hanno riguardato non solo il polo industriale in quanto tale, ma un intero spazio vissuto dalla nostra gente, che in quell’arretramento socio-economico, dopo la caduta del polo industriale, ne sopporta ancora oggi le cicatrici”.