Mentre il Pil italiano cresceva nel 2016 del +0,9% i rifiuti speciali prodotti nel Paese – ovvero l’altra faccia della medaglia delle nostre attività produttive, commerciali, di servizio, etc – correvano nello stesso periodo più del doppio: +2%, frutto dell’aumento pari al +1,7% dei rifiuti non pericolosi e al +5,6% dei pericolosi. A certificarlo è il Rapporto rifiuti speciali – edizione 2018 pubblicato oggi dall’Ispra, che informa come nel 2016 i rifiuti speciali prodotti complessivamente dall’Italia si attestino a quasi 135,1 milioni di tonnellate, un quantitativo oltre quattro volte superiore a quello dei rifiuti urbani (circa 30 milioni di tonnellate); da notare inoltre che in quelle 135,1 milioni di tonnellate rientrano anche «i quantitativi di rifiuti speciali provenienti dal trattamento dei rifiuti urbani, pari a quasi 11,2 milioni di tonnellate»
Dati che complessivamente risultano inoltre sottostimati, in quanto – per dirla con l’ex presidente dell’Ispra Bernardo de Bernardinis – la «certezza dell’informazione nel nostro Paese è un’utopia», a maggior ragione se si parla di rifiuti speciali. È infatti lo stesso Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale a ricordare che la fonte dei dati, ovvero le banche dati Mud, è stata integrata «con i quantitativi stimati da Ispra mediante l’applicazione di specifiche metodologie». Non potrebbe essere altrimenti, in quanto da una parte sono tenuti alla presentazione della dichiarazione Mud solo enti e imprese produttori di rifiuti con un numero di dipendenti superiore a 10, e dall’altra esistono «settori interamente esentati dall’obbligo di dichiarazione». Da qui la necessità di operare stime consistenti da parte dell’Ispra: su 135,1 milioni di tonnellate complessive, ad esempio, la quota stimata di rifiuti non pericolosi prodotti «rappresenta il 46,1% del dato complessivo».
A fronte di questo contesto assai nebuloso, che è indispensabile ricordare, l’Ispra è comunque in grado di fornire dati fondamentali. Ad esempio, quelli che spiegano da dove arrivano quelle 135,1 milioni di tonnellate di rifiuti speciali prodotte in un singolo anno: soprattutto dal settore costruzioni e demolizioni (40,6%), seguito subito dopo dalle attività di trattamento dei rifiuti e attività di risanamento (27,2%), perché anche l’economia circolare naturalmente produce rifiuti) e dalle attività manifatturiere nel loro complesso (20,7%). Guardando invece ai soli rifiuti pericolosi, il 38,3% arriva dal manifatturiero, il 30,9% dalle attività di trattamento rifiuti e di risanamento, il 19,8% dal settore dei servizi, del commercio e dei trasporti.
Come vengono gestititi tutti questi rifiuti? I dati disponibili informano che il 65% va a recupero di materia, il 13,3% a “altre operazioni di smaltimento”, l’1,5% a recupero di energia, lo 0,9% a incenerimento e l’8,6% in discarica, una forma di smaltimento cresciuta del 7,9% dal 2015 al 2016.
È inoltre utile dare un’occhiata alla voce export: «La quantità totale di rifiuti speciali esportata nel 2016 – scrive l’Ispra – è pari a 3,1 milioni di tonnellate, di cui il 67,4% (2,1 milioni di tonnellate) è costituito da rifiuti non pericolosi ed il restante 32,6% (1 milione di tonnellate) da rifiuti pericolosi». Da notare che «il 58,9% dei rifiuti pericolosi esportati, sono “rifiuti prodotti da impianti di trattamento dei rifiuti” (capitolo 19), 601 mila tonnellate», a dimostrazione di come ancora oggi purtroppo non riusciamo realmente a chiudere il cerchio dell’economia circolare nazionale, nonostante il profluvio di rapporti e conferenze stampa che ne declamano i benefici.
Naturalmente, un altro esempio in materia è fornito dall’amianto. Messo al bando nel 1992, l’amianto continua ancora ad ammorbare il Paese: come ricorda l’Ispra è possibile trovarlo ovunque, dato che in passato era un materiale ampiamente utilizzato per la realizzazione di frigoriferi e impianti di condizionamento, per la coibentazione di carrozze ferroviarie, autobus e navi, sui tetti sottoforma di lastre piane o ondulate, in alcuni elettrodomestici (es. forni, stufe, ferri da stiro) come anche in tessuti per abbigliamento (es. giacche, pantaloni, stivali).
Ancora oggi si stima in 32-40 milioni di tonnellate la presenza di amianto che attende di essere bonificato. Ma per procedere con le bonifiche è necessario (anche) sapere dove conferire i rifiuti contenenti amianto, provenienti dalle bonifiche stesse; purtroppo però sono solo 21, nel 2016, le discariche operative che smaltiscono questi rifiuti, una lacuna denunciata più volte sia dal ministero dell’Ambiente sia da associazioni come Legambiente.
Ecco dunque che i rifiuti contenenti amianto prodotti in Italia nell’anno 2016 sono pari a 352 mila tonnellate, in calo del 4,6% – le bonifiche vanno a rilento? –, e quelli effettivamente gestiti sono ancora meno (273 mila tonnellate), mentre il quantitativo esportato di rifiuti contenti amianto ammonta a 125mila tonnellate: «La Germania è l’unico Paese che, nel 2016, riceve i rifiuti di amianto dall’Italia, ai fini dello smaltimento», e – paradossalmente – mentre sul territorio italiano insorgono sempre più spesso comitati “ambientalisti” se non gli stessi amministratori locali per impedire la realizzazione delle discariche necessarie a ospitare i rifiuti provenienti dalle bonifiche, paghiamo profumatamente la Germania per destinare il nostro amianto «alle miniere di sale del Paese; la miniera salina di Stetten, una delle più produttive, è autorizzata a ricevere 250 tipologie di rifiuti, utilizzate per la messa in sicurezza delle cavità che si generano a seguito dell’attività estrattiva».
Notizia tratta dal sito www.greenreport.it