Come robot e tecnologia stanno cambiando il mondo del lavoro italiano

Il continuo incrociarsi di lavoro e tecnologia, con una velocità e un’intensità che sono difficili da ritrovarsi lungo la storia umana, rappresenta un tratto caratteristico della nostra era e – soprattutto – un profondo elemento d’inquietudine che taglia in due la società contemporanea: da una parte siedono quanti ne traggono e ne trarranno sempre più vantaggi, dall’altra coloro che hanno fondati timori di venirne travolti. Una sintesi è possibile? La XIII edizione del Festival dell’economia di Trento – che si è appena chiusa – ha quantomeno lasciato sul tavolo importanti elementi di riflessione, con particolare attenzione al contesto italiano.

Secondo i dati portati da Stefano Scarpetta (Ocse) l’occupazione in Italia è oggi ai livelli più alti dal dopoguerra: se 20 anni fa i lavoratori tra i 15 e i 64 anni erano circa il 52%, attualmente sono circa il 58%. Eppure non c’è molto da essere soddisfatti. Come ricorda l’economista Marta Fana, dal 1997 a oggi ogni tre anni una legge italiana che ha tolto tutele lavoro e non ha compensato la flessibilità con qualche ammortizzatore; i riders che consegnano pizze a domicilio ci sono sempre stati, con la differenza che oggi sono ingaggiati con un’app e non hanno un luogo fisico per essere tutelati, fare fronte comune. E guardando un po’ più in profondità i numeri sull’occupazione i risultati si vedono: gli occupati aumentano (considerati come teste) ma se consideriamo le unità di lavoro siamo ancora al di sotto del punto di inizio della grande recessione, mentre i poveri assoluti oggi sono l’8,3% della popolazione. Senza contare la rivoluzione tecnologica che sta mutando il profilo del mercato del lavoro. C’è crescita dunque, ma non per tutti: anche nel 2017 in Italia abbiamo avuto un +1,5% di crescita del Pil, ma di questo solo lo 0,6% è andato alle famiglie (e, considerando la disuguaglianza, non a tutte allo stesso modo); al contempo – vale la pena notare –abbiamo emesso gas climalteranti in misura crescente (i dati ufficiali si fermano al 2016), allontanandoci così da uno sviluppo che fosse socialmente e ambientalmente sostenibile.

In questo contesto, come impatterà il crescente ruolo delle macchine in termini di disoccupazione tecnologica? «In tutti i paesi del G7 – ha evidenziato Scarpetta – c’è stata una crescita dei lavori in cui venivano richieste competenze alte e una forte riduzione di lavori in cui venivano richieste competenze intermedie, vale a dire lavori che potevano essere rimpiazzati dalle macchine. In termini di robot nei processi produttivi si prevede un forte incremento: da 83.000 robot presenti globalmente nel 2003 a 500.000 stimati nel 2020. Ora, se tutto ciò che può essere fatto dalle macchine verrà realmente svolto dalle macchine – sottolinea l’economista Ocse – si stima una diminuzione di posti di lavoro del 14%».

Ma l’impatto della disoccupazione tecnologica potrebbe essere assai più ampio. «Al momento – ha spiegato Francesco Daveri (Bocconi) – solo il 5% dei lavori è stato completamente automatizzato, ma il 60% sarebbe potenzialmente automatizzabile. Le attività operative in contesti stabili, come agricoltura, manifattura e back office, sono fra quelle più facilmente automatizzabili. Meno quelle che richiedono l’empatia umana che le macchine non possono certo garantire, come le attività di management, i servizi sanitari o educativi».

«I robot – aggiunge Roberto Cingolani (Iit) – fanno cose straordinarie e potranno fare ancora meglio, ma un essere umano sarà sempre più performante. L’evoluzione ci ha resi molto più efficienti e performanti rispetto alle macchine, che per ogni operazione hanno un consumo energetico molto alto».

Rendere semplici le cose complesse, ha aggiunto lo scienziato, è la principale caratteristica dell’uomo: le sinergie tra neuroni lo hanno reso efficiente. La macchina invece deve misurare e calcolare ogni parametro per poter agire. Per questo è inarrivabile l’eccletticità dell’esperienza biologica; non si può dire quindi che le macchine siano intelligenti, sono solo molto performanti, anche se «negli ultimi decenni le rivoluzioni sono avvenute in tempi medio lunghi e i cittadini non hanno pagato un costo eccessivo al cambiamento. Oggi la velocità dell’innovazione è molto maggiore e convertire il lavoratore richiede un investimento notevole e continuo nella formazione». Insieme a rafforzate forme di sostegno al reddito, che attualmente nel nostro Paese spaziano dal Reddito d’inclusione (Rei) inaugurato dal governo Gentiloni al Reddito “di cittadinanza” promesso dal nuovo esecutivo M5S-Lega. Come finanziarli?

Il cambiamento tecnologico, ha precisato Stefano Sacchi dell’Inapp, fa risparmiare lavoro e per questo viene adottato dalle imprese. Genera sostituzione di esseri umani con le macchine. Per questo «oggi è particolarmente attuale il tema della redistribuzione dei guadagni di produttività che si realizzano con l’innovazione tecnologica». Ma nel cruciale passaggio dal dire al fare siamo ancora molto indietro.

Notizia tratta dal sito www.greenreport.it

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